Sanremo 2020 il caso Junior Cally, tu da che parte stai? Ma prima di decidere, informati bene.

Le prime righe sono per chi leggerà questo post in inglese: ogni anno in Italia si tiene il Festival di Sanremo, gara di cantanti riservata alla musica italiana, che quest’anno celebra la sua 70° edizione a febbraio, dura per 5 lunghissime serate in diretta sulla prima rete tv pubblica nazionale e resta l’ultimo grande evento nazional- popolare in grado di interessare tutti i media, le generazioni, buona parte dell’opinione pubblica, compresi gli italiani all’estero. Resta anche l’unico momento in cui un cantautore old style può darsi il cambio sul palco con la stella dei talent show, seguiti dal rapper di protesta e poi magari dal duetto più improbabile della storia della canzone italiana.

In questo contesto la conduzione e direzione artistica di Sanremo 2020 è stata affidata ad Amadeus, personaggio positivo, simpatico, uno dei re del quiz in tv ma ben prima conduttore radiofonico e punta di diamante di una generazione di showman cresciuti al Festivalbar. Non si può non voler bene ad Amadeus, genuino e sorridente lavoratore del palcoscenico, padre di famiglia, credibile conoscitore di musica pop.

Tra i cantanti scelti c’è Junior Cally, trapper emergente che ha trovato nella maschera a gas la sua firma più evidente; io ho l’archetto a led, lui la maschera a gas. Sotto la sua maschera ha rime di rivalsa e protesta, io sotto la luce creo note di violino un po’ più elettroniche della media. Gli artisti spesso scelgono alias o travestimenti per rivelarsi, per scolpire la propria identità fuori dalla realtà.

Premessa finita: Junior Cally è un trapper di genere, quindi sconosciuto ai più, dal telespettatore medio al giornalista medio al politico medio. Una vecchia canzone di Junior Cally racconta di un femminicidio, giornalisti dirigenti televisivi e opinione pubblica la scoprono: apriti cielo. Bisogna escludere il cantante dal festival. Questa la fredda sintesi con ritmo da blog.

Prima di scrivere questo post ho letto almeno una ventina di articoli, ho voluto vedere dove si era arrivati nel spararla grossa.

L’articolo che più mi ha aperto gli occhi è stato questo https://music.fanpage.it/rap-e-sessismo-giulia-blasi-e-un-problema-artistico-basta-violenza-sulle-donne-per-raccontarsi/ quindi, per chi ha 5 minuti, date una letta, anche col traduttore;-)

La sintesi della scrittrice Giulia Blasi, sulle dichiarazioni della quale si basa l’articolo, è che il problema non è morale ma artistico: ha senso giudicare con gli strumenti della cronaca l’arte? Probabilmente no, altrimenti avremmo dovuto indignarci anche per le migliaia di film che mostrano ogni genere di violenza. L’arte spesso disturba, in molte sue forme, io per esempio non sono attratto da quel tipo di espressione e, voi che mi conoscete, sapete anche quanto sia orientato ad una proiezione più “energica”, “positiva”, “olistica” della mia musica.

Anche nella musica esiste uno storytelling, i testi sono racconti. Lo storytelling non è sempre e per forza autobiografico e la polemica strumentale nella musica sembra sempre più grande di quella che è, amplificata da eventi di cronaca. Nel caso specifico è l’approdo del trapper al Festival di Sanremo, in un momento in cui dal #metoo alla cronaca quotidiana, giustamente la questione del rispetto della donna, le tematiche della violenza di genere e molte altre implicazioni sociali ed economiche sono protagoniste del dibattito pubblico.

Ben venga tutto questo, ricordo scambi accesi di commenti sotto i miei post nella giornata contro la violenza sulle donne, da parte di donne che ritenevano inutile il dibattito… Cosa penso io? Che Junior Cally non vada escluso, perché il rischio è quello di uno sconfinamento nella censura che è ben diverso dal gusto. Si assuma le sue responsabilità e quelle del movimento artistico che rappresenta.

Per anni si è ritenuta la deriva misogina nel rap come parte di una narrazione, frutto del racconto e del personaggio del rapper. I testi di una certa scena trap contemporanea sono pieni di “bitch”, “cagna” e “puttana” e anche l’iconografia del genere non viene in aiuto. Portiamolo sul palco di Sanremo, non creiamo alibi, facciamo che gli artisti che scelgono questi stereotipi (tra l’altro internazionali) si prendano la loro responsabilità e, a quel punto, l’arte musicale avrà assolto al suo dovere di creare dibattito, nell’evento più grande che ci sia. E sentirne cantare forse potrà farci sdegnare al punto di civilizzare le nuove generazioni e dotarle degli strumenti culturali per distinguere la realtà dalla finzione, e non avvallare il percorso opposto.